25 gennaio 2009

Commento su L'espresso “Quando la solitudine uccide” Ilaria Mascetti

Raffaele Innato ha scritto: 23 Gennaio, 2009 18:51
E’ sempre difficile capire perchè decidere di finirla. Le spiegazioni possono essere tante, giustificate e non. Però di fronte a episodi così crudi, si rimane fortemente colpiti.
Il suicidio di una vita giovane è difficile da accettare perchè lo si vede come una tragica anticipazione di quello che è il nostro ciclo naturale: nascita, bambino, giovane, maturo, anziano, vecchio e morte. Il suicidio di un anziano o vecchio viene visto come un epilogo quasi naturale, dato più da lunga sofferenza e stanchezza di lunghi anni, che non da un motivo più umano da ricercare nell’animo di ognuno di noi.
Io penso che la società, la nostra società, dovrebbe imparare a rispettare tutte le persone nella stessa e identica maniera. Non commettere l’errore che fra di noi ci possano essere differenze o discriminazioni di sorta.
Purtroppo questa nostra società, ci fa nascere tutti differenti socialmente ed economicamente. E da qui che nascono i problemi di sopravvivenza che portano a conflitti e guerre perenni. Si stressano i giovani per illuderli e convincerli che il futuro li vedrà protagonisti di una vita splendida e piena di soddisfazioni: “Se hai le capacità tu sarai il numero 1, non devi guardare in faccia a nessuno. Ricordati che gli altri sono tuoi concorrenti, avversari e nemici. Se gli altri sono capaci di fare 5 tu devi fare 6, se gli altri fanno 6 tu devi fare 7 e così via…” Questi giovani, man mano che gli anni passano si accorgono che la vita è molto più difficile di come l’avevano prospettata. Allora nascono i dubbi e le delusioni.
C’è chi non è in grado di proseguire e pensa di finirla con la droga, l’alcool, uno scontro frontale, un volo da un piano alto, un colpo di pistola alla tempia, partecipando ad un conflitto a fuoco, un pieno di barbiturici, c’è una vasta scelta.
C’è chi invece prosegue lottando per non soccombere, ma la strada è impervia e piena di ostacoli naturali e innaturali. Si resiste fino a quando l’organismo è capace di difendersi, dopodichè si cede o per stanchezza alla tentazione di chiudere in anticipo, o per cause naturali, che a guardare più a fondo ci sono e partecipano anche le cause innaturali create da noi.
Invece, sarebbe molto più semplice e naturale nascere uguali, convivere con gli altri in un unica comunità, partecipare insieme al miglioramento della società, lavorando tutti, aiutandosi, collaborando perchè il più forte possa aiutare il più debole, rispettare le persone e la natura, per vivere in una società di eguali, dove la morte deve essere vista come il proseguimento di un’altra vita per continuare il ciclo naturale dell’esistenza e non per eliminare un nemico.
Così, non avrebbe senso il suicidio, perchè piacevolmente occupati a voler vivere il nostro spazio di tempo in una società più giusta è più umana.
Un caro saluto


Raffaele Innato ha scritto: 24 Gennaio, 2009 17:37
Caro Gian Paolo,
per un non credente (anch’io lo sono) la morte è la parte finale e ultima della propria vita. Dopo non vi è più nulla, se non il ricordo, per gli altri che sopravvivono, di quello che si è lasciato ai posteri. Io penso e sono certo che il suicidio non sia la risoluzione dei mali. Anzi, chi pensa di togliersi la vita è dotato di grande forza d’animo, ma non ha compreso che finchè c’è un alito di vita, deve sfruttarlo a capire di più e far capire, quanto la vita sia un bene inestimabile.
L’errore dell’uomo è quello di farsi trascinare nell’ambiguità di una società fallace, composta da egoismi, personalismi e arroganza del prevalere.
Se l’uomo si fermasse per un momento a riflettere. Magari, seduto su uno scoglio ad osservare il movimento continuo delle onde del mare che si infrangono, lasciando quel profumo di vita di cui il mare ha grande ricchezza. O sdraiato su una finissima spiaggia a guardare con meraviglia le stupende bellezze della nostra galassia. O dall’alto di una cima di una maestosa montagna imbiancata a rimirare la valle che si arricchisce delll’acqua che scorre a portarle la vita. E assaporasse, anche per un istante, l’aria di benessere che la natura ci ha regalato, certamente capirebbe che la vita è al di sopra di tutto, e che il rispetto che le si deve è quello di partecipare attivamente sempre finchè l’ultima cellula vive, per donare ai nostri eredi lo stesso dono di cui abbaiamo beneficiato noi.
La felicità è la vita. E’ la nostra compagna di sempre.


Raffaele Innato ha scritto: 24 Gennaio, 2009 21:51
La noia è sensazione d’inerzia malinconica e d’invicibile fastidio, dovuta perlopiù a insoddisfazione per la monotonia e la mancanza d’interesse della situazione in cui ci si trova.
La noia può essere sintomo di depressione clinica. Può essere indifendibilità appresa, un fenomeno strettamente collegato alla depressione.
Alcuni filosofi della crescita propongono che se i bambini sono cresciuti in ambienti privati di stimoli, e non sono incoraggiati ad interagire con il loro ambiente, non svilupperanno le capacità di farlo.
La noia è spesso associata all’adolescenza, specialmente nelle periferie, piccole città e altre aree isolate.
Quindi, la noia o in forma più grave la depressione, si acquisisce nel tempo dal contesto sociale in cui l’individuo diventa parte offesa, subendo la perdita degli stimoli di reattività e cedendo all’inedia o ad atti inconsulti.
E qui la società ha molta colpa.


Raffaele Innato ha scritto: 25 Gennaio, 2009 18:14
Caro Fab1963,
anche gli animali conoscono il suicidio. Recenti ricerche sembrano confermare l’ipotesi che gli individui di alcune specie scelgano la morte per garantire la salvezza del gruppo: termiti kamikaze, talpe che si lasciano morire di fame, farfalle che richiamano gli aggressori, le scimmie come l’ uomo soffrono di depressione. Sarebbero alcuni esempi di creature capaci di togliersi la vita in maniera apparentemente deliberata, che i ricercatori hanno cominciato a studiarne i motivi alla luce della teoria dell’evoluzione.
L’impulso all’autodistruzione negli animali, sostengono oggi alcuni scienziati, sarebbe infatti l’espressione di un istinto a sacrificarsi per il bene del resto della specie. Alcuni genetisti dell’evoluzione si spingono a teorizzare che perfino nell’ uomo la tendenza al suicidio possa avere una componente darwiniana, almeno per quanto riguarda certi tipi di atti autodistruttivi. Ma a differenza dell’uomo, gli animali non lasciano certo note di commiato e sono incapaci di atti manifesti, che richiedono una coscienza molto sviluppata. Robert Trivers, etologo dell’ Universita’ della California di Santa Cruz, cita l’esempio di una varieta’ di farfalla che trae in inganno i predatori confondendosi con i colori dell’ambiente. E’ stato osservato che quando gli esemplari adulti hanno ormai passato la fase riproduttiva si lasciano cadere a terra e sbattono rapidamente le ali finche’ non muoiono di sfinimento. Questo gesto permetterebbe di diminuire le probabilita’ di mettere in pericolo la progenie.
Le scimmie come l’uomo soffrono di depressione.
Alcuni studiosi dell’evoluzione, sono convinti che i comportamenti degli esseri umani spesso e volentieri non sono che versioni piu’ complesse di tratti sviluppati gia’ in altre specie. E uno dei fenomeni che piu’ sta ricevendo l’attenzione di questo genere di ricerche comparate e’ la depressione, specialmente alla luce di recenti studi che ne hanno documentato in maniera indiscutibile la presenza in varie specie di primati. Si e’ infatti scoperto che, in condizioni naturali di stress, gli animali che sono piu’ vicini all’ Homo sapiens nella scala evolutiva, dagli scimpanze’ agli oranghi, possono essere soggetti a stati melanconici di vario grado, fino a giungere addirittura, nei casi piu’ gravi, ad un blocco evidente dell’istinto di autoconservazione e al suicidio. E celebre il caso documentato da Gene Gooddall, scrittrice e studiosa del comportamento degli scimpanze’, di un piccolo di sette anni e mezzo caduto in uno stato di profonda depressione alla morte della madre da rifiutare di allontanarsi dal suo corpo perfino per procurarsi del cibo. E tanto simile sarebbe la depressione dei primati a quella umana, che la somministrazione di farmaci come il Prozac ne allevia in maniera equivalente i sintomi. Non solo. Studiando le scimmie Rhesus nel loro habitat naturale si e’ trovato che in una colonia, ben il 20 per cento degli individui risulta in media predisposto a questo disturbo quando si trova a dover affrontare la scomparsa di consanguinei o partners o quando e’ sotto stress per aver perso il proprio stato sociale. Secondo un recente studio condotto da Stephen Suomi, direttore del laboratorio di etologia comparata al National Institute of Health, si tratterebbe della stessa percentuale riscontrabile anche in campioni di popolazione umana. Suomi riporta, inoltre, che anche da un punto di vista chimico i primati affetti da depressione mostrano forti analogie con i pazienti umani, ivi incluso un identico calo dei livelli di noretineprina nel liquido cerebrospinale. Alla ricerca di un sostrato evolutivo al disturbo sia negli animali sia nell’ uomo, alcuni scienziati hanno avanzato l’ipotesi che si tratti, entro certi limiti, di una forma di autoprotezione, ideata dalla natura, per permettere all’ individuo di ponderare sulla situazione e di raccogliere le forze per passare al contrattacco. Per altri, invece, rappresenterebbe piu’ semplicemente il rovescio della medaglia di un tipo di personalita’ che, in situazioni di normalita’, comporta grandi vantaggi. In proposito, si e’ osservato che le scimmie che si dimostrano piu’ suscettibili alla depressione sono quelle che spesso e volentieri finiscono per accaparrarsi le posizioni gerarchiche piu’ rilevanti all’interno del loro gruppo.
E l’aspetto sociale c’entra sempre.

3 commenti:

Anonimo ha detto...

Fab1963:
25 Gennaio, 2009 01:50
No, gentile Signor Raffaele.
La noia non è sintomo di depressione clinica. Lo sono l’apatia, la catatonia.
Ma non la noia.
Lo so che sembra assurdo morire per noia, quasi uno schiaffo a chi muore per altre cause e invece vorrebbe vivere.
Ma anche la noia è figlia della cultura dell’io.
E non essendo sinonimo di depressione non si può curare.
Il Signor Gian Paolo l’ha sinteticamente e tremendamente descritta e ne ha tracciato le strade che dalla noia portano a volersi dare la morte.
Quelle poche righe sono istruttive per tutti.
Leopardi, che non era cresciuto in una periferia degradata ma era un nobile di buon lignaggio dello Stato pontificio nel suo Zibaldone e in alcuni suoi canti ce la descrive, a volte lo chiama tedio (Canto notturno di un pastore errante per l’Asia) e giunge ad invidiare gli animali, perchè a loro il tedio non li assale.
Abbiamo tutto e ci pare che non abbiamo nulla: da lì prende origine la noia.
Sentimento sofisticato quasi esclusivamente occidentale.
Cordialità.

Anonimo ha detto...

taras2008:
25 Gennaio, 2009 20:57
Sono assolutamente concorde col commento del sig. Innato avendo fatto un’ottima diagnosi della malattia e dando anche la terapia da seguire. Infatti anch’io sono daccordo sul fatto che la società così com’è quella attuale basata sempre sulla competitività e conflittualità di tutti contro tutti in ogni situazione, e questo che poi spinge spesso chi soccombe a questa gara a togliersi dal gioco. Infatti qualche tempo fa in una statistica sui suicidi il Giappone primeggiava per il numero dei giovani che si toglievano la vita perchè non avevano raggiunto lo scopo prefissato sia negli studi che nel lavoro.
Effettivamente è sempre meglio prevenire che curare, e in questo caso la prevenzione va fatta modificando i valori di questa società non puntando più sulla perenne competitività ma puntando sulla collaborazione di tutti e per tutti. A tale proposito, proporrei ad immaginare una società senza denaro. Io già posso pensare che non essendoci il denaro, una gran parte della criminalità cesserebbe questa attività, conseguentemente si avrebbe meno bisogno della polizia,oltre naturalmente anche a tutti i sistemi di sicurezza tipo polizze assicurative, sistemi di allarmi, porte blindate, mazzi di chiavi che ci portiamo sempre appresso come dei San Pietro ecc. Anche le truffe non avrebbero motivo di esistere, come la prostituzione con tutta la criminalità che ruota attorno ad essa. E tutte le persone collegate in queste “attività”, protrebbero essere impiegati a svolgere altri lavori importanti per la collettività. In tal modo, si potrebbe lavorare molto meno tutti quanti e si avrebbe anche una notevole riduzione di inquinamento con beneficio della salute e conseguentemente minor necessità di ricurrere all’assistenza sanitaria.
Naturalmente gli esempi fin qui riportati sono soltanto una piccola quantità dei benecifi che si otterrebbero applicando questo metodo, pertanto ognuno potrebbe apportare la propria esperienza a migliorare ulteriormente le condizioni dell’umanità. E mio convincimento, che riordinando il modo di produzione e i rapporti di solidarietà reciproca si ridurrebbero notevolmente anche i suicidi.
P.S. questa è una possibilità scientificamente possibile, si tratterebbe soltanto volerla applicare. Salute a tutti.

Anonimo ha detto...

Fab1963:
26 Gennaio, 2009 22:22
Gentile Signor Raffaele,
bellissimo il Suo post e notevoli i dati da Lei riportati.
Aggiungerei i non pochi cani che si lasciano morire di inedia dopo la morte dei loro padroni o addirittura sulle loro tombe.
Sono contento di aver contribuito a suscitare una discussione così alta provocando (ma non troppo) con la noia nel mio primo intervento.
E sono contento di aver trovato nella Signora Silvana,che a mia volta ringrazio, una delle purtroppo poche estimatrici della Elisabeth Kubler Ross, i cui studi sarebbero meglio indicabili come oggetto di discussione se qualcuno scrivesse (e la redazione pubblicasse) una lettera sul perchè oggo nei cosiddetti paesi ricchi la morte faccia tanto paura e su come si muore male, in un gioco delle parti doloroso più della morte stessa tra ammalati parenti e curanti. ma questa è un’altra storia.

La noia dunque, quella parola che ha suscitato la reazione verbale della Signora Nadia R.
Ma a quale noia intendevo far riferimento nel mio primo intervento? Il Signor Gian Paolo lo ha detto: uno può avere una vita apparentemente appagata, benestante, figli e nipoti e però può sentirsi arrivato, può aver perso la capacità di stupirsi senza per questo essere depresso.
Certo nello spleen di Baudelaire non poco peso avevano alcool e droghe di cui il poeta maudit faceva largo consumo, ma a volte esso può intrufolarsi piano piano nella nostra quotidianità sino a farcela vedere monotona.
Ripeto: è uno schiaffo in faccia a chi invece vorrebbe vivere e non può: un proverbio popolare credo sardo recita “Chi ha pane non ha denti e chi ha denti non ha pane”. Insomma non si è mai contenti.

Una favoletta greca ci dice che Zeus fece gli uomini immortali e felici: ma questi, dopo un po’ cominciarono ad uccidersi ad uno ad uno. Inorridito il padre degli dei scese dall’Olimpo e chiese ad un uomo il perchè di questo comportamento. E quello gli rispose: “Perchè ci annoiamo. Questa vita sempre uguale, beata dopo un po ci annoia.” Allora Zeus si arrabbiò molto, comprese di aver fatto un “errore di progettazione” ed introdusse nel mondo tanatos, la morte; un po’ come punizione un po’ come riequilibrio, perchè aveva capito che gli uomini non erano adatti alla felicità della beatitudine.
Solo una favoletta, ma molto istruttiva; peraltro molto simile nella struttura al racconto della Genesi: uomo creato da Dio immortale, la morte che entra nel creato per colpa di satana in concorso con la volontà dell’essere umano, la conseguente punizione divina: cacciata dal paradiso terrestre, caducità, male e dolore. E fatica. Anche di vivere.

Ed è interessante (almeno per me) comparare le risposte in questo spazio con quelle date nello spazio relativo ad Eluana, vedere come la morte susciti differenti reazioni se giunge per suicidio o per richiesta del sofferente.
Questi sono temi alti ma non bisogna avere paura dell’altitudine. Tutto ciò che è macroscopicamente vivo tende all’alto.

Cordialità.